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Il mito della montagna nell'arte trentina
Nago Torbole, Forte Superiore
Fino al 28 settembre 2008
Sulla scia delle visioni segantiniane, rappresentazioni di una natura panteista, si afferma in Trentino, all’inizio del Novecento, una sensibilità particolare nella raffigurazione della Natura tesa tra descrizione del vero e come luogo di esplorazione dell’umano. L’acquaforte di Dario Wolf intitolata Il mito della montagna (1927) idealmente vuole essere il filo conduttore delle esperienze degli artisti trentini che, nei primi decenni del Novecento, pur risentendo del clima culturale di rinnovamento dei linguaggi, realizzano nella descrizione della montagna un centro simbolico di forte attrazione e di esperienza.
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Fortunato Depero - Case alpestri, 1936

Sulla scia delle visioni segantiniane, si afferma in Trentino, all’inizio del Novecento, una sensibilità particolare nella raffigurazione della Natura che ha una duplice veste, descrivere il vero ed esplorare l’umano. “Siamo già alla fine dell’Ottocento – ci dice la curatrice, Giovanna Nicoletti – quando Giovanni Segantini lascia una traccia forte nella storia della raffigurazione del paesaggio, attraverso un’are capace di parlare al cuore. La realtà della montagna è la rappresentazione stessa di un luogo “mitico” nel suo desiderio insito di conquista, di comprensione; in questo senso, all’inizio del XX secolo, l’esperienza della montagna coincide con la frenesia per la sua conquista, con il desiderio della ‘scalata”. Ma la mostra Il mito della montagna non rappresenta soltanto il camminare per le alte vette cercando di ascenderle, quanto anche osservare e annotare tutto quanto sta intorno”.

Nella mostra allestita prima a Nago e poi alla Galleria Civica di Arco, l’acquaforte di Dario Wolf intitolata, appunto, Il mito della montagna (1927) idealmente vuole essere il filo conduttore delle esperienze degli artisti trentini che, nei primi decenni del Novecento, pur risentendo del clima culturale di rinnovamento dei linguaggi, realizzano nella descrizione della montagna un centro simbolico di forte attrazione e di esperienza. Dopo Segantini, i primi ad elaborare il tema della natura, verso la fine dell’Ottocento, sono Bartolomeo Bezzi, Romualdo Prati ed Eugenio Prati, con paesaggi che sembrano essere senza limiti, dove le atmosfere soffuse e vaporose assorbono ogni energia.

A segnare il passaggio da paesaggio pastorale a quello urbano è Alcide Davide Campestrini, che ambienta le sue scene su scorci urbani. La lezione simbolista, e più propriamente divisionista, è incarnata da Luigi Ratini e da Tullio Garbari. Luigi Bonazza, accanto alla produzione di manifesti collegati al tema della montagna, riprende, invece, con Dario Wolf e Attilio Lasta l’esperienza della luce.

La mostra Il mito della montagna approfondisce anche la ricerca di altri artisti come Umberto Moggioli, che riprende alcune influenze di derivazione veneziana, Gigiotti Zanini con suoi paesaggi ingegnui e onirici, o di Carlo Bonacina, Gino Pancheri, Fortunato Depero, Cesarina Seppi e Onkè Pezolli, che raccontano la montagna attraverso il protagonismo quasi monumentale dei propri soggetti, senza dimenticare Gottfried Hofer, Angelico Dallabrida, Hans Lietzmann, Guido Polo e Bruno Colorio che leggono la montagna in modo realistico ma denso di valore simbolico

A cura di Giovanna Nicoletti

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