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Giuseppe Angelico Dallabrida
MAG Arco, Galleria Civica G. Segantini
Bis Sonntag 3. Mai 2009
La Galleria Civica di Arco indaga, attraverso 40 oli, l’opera di Giuseppe Angelico Dallabrida, che visse tra il 1874 e il 1959 attraverso alcuni luoghi caratteristici del Trentino, da Caldonazzo, ad Arco, a San Michele all’Adige. Nelle sue opere il paesaggio è utilizzato come appunto biografico di una vita itinerante, attraverso le tappe dei maestri trentini che maggiormente lo hanno ispirato, Eugenio Prati, Bartolomeo Bezzi, lo stesso Giovanni Segantini.
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Castel Toblino, Giuseppe Angelico Dallabrida

Se il clima artistico nel quale si forma è quello tardo romantico delle Accademie di Venezia e di Milano, Dallabrida preferisce però rifugiarsi nella quiete della sua terra e immergersi nella totalità del paesaggio montano, unico luogo nel quale sa trovare la sua ispirazione. Poche le date sicure per la sua estesa produzione, unica certezza è il periodo trascorso in Moravia durante la Grande Guerra, quando sfollato assieme agli altri trentini venne trasferito nel campo di Mittendorf.

Al termine della guerra Dallabrida rientra in Trentino e ai suoi paesaggi ripetuti più e più volte: le vedute del lago di Caldonazzo o quelle di San Michele e Grumo, le composizioni delle Bagnanti che spesso si trasformano in veri e propri paesaggi. Di queste opere non vi sono date cronologiche, perché Dallabrida si rifiutava di datare e di firmare, e quindi risulta difficile capirne la consequenzialità; ognuno però, a suo modo è diverso, si distingue. “Dallabrida – scrive Giovanna Nicoletti – ha dipinto su materiali tra i più vari, da supporti cartacei, a tele di sacco, o pezzi di legno. Gli impasti cromatici usati dal pittore sono inusuali e ancora sconosciuti dal punto di vista della composizione: si sa che Dallabrida cercava di creare un rapporto vero tra l’opera e la natura e per questo molti colori sono stati realizzati mescolando materiali organici o erbe. Usava poi osservare da lontano l’effetto delle sue opere e qualche volta vi lanciava contro il pennello in modo che il colore schizzasse disordinatamente sulla superficie della tela per dare un effetto di maggiore omogeneità”. “Il suo approccio al mondo dell’arte rientra più nella categoria romantica di colui che si immedesima con l’oggetto ritratto non descrivendo la terra ma le sensazioni percettive che questa emana – evidenzia Fiorenzo Degasperi – In quest’ottica la pittura dell’artista rimanda alla propria geografia interiore.

Egli si muoveva costantemente tra Caldonazzo e Mezzolombardo, transitando per Trento, utilizzando una vecchia bicicletta senza sella, atta a trasportare le tele e l’armamentario del proprio mondo pittorico. E ogni tanto si fermava, prendeva la tela, pennelli e tavolozza, dipingendo ciò che lo aveva, in quel preciso istante, colpito. Una luce, una nube, una particolare atmosfera, una situazione”. Tra gli aneddoti ve n’è uno che rimane alla memoria, come ricordato dal curatore Degasperi: “Nel 1937 Dallabrida si recò a Roma, assieme a Bruno Colorio e Fortunato Depero, invitati a pranzo da Benito Mussolini, per una premiazione. Lui abituato a risparmiare fino all’ultimo soldo per poter acquistare il materiale che gli permettesse di continuare la sua attività di pittore e di sognatore, prese dal piatto la sostanziosa bistecca per riporla nel portafoglio vuoto. Poteva servire in seguito. Uomo essenziale, d’altri tempi, maestro dell’atmosfera del paesaggio”.

Giuseppe Angelico Dallabrida (Caldonazzo, 1874- Mezzolombardo, 1959): Nasce a Caldonazzo il 17 agosto del 1874 da Bernardino Brida e Maria Molini. Incoraggiato fin da piccolo alla pittura dall’artista Eugenio Prati, coltiva questa passione fin dall’infanzia. Si trasferisce per un breve periodo ad Arco nel 1894 lavorando come garzone presso un negozio di alimentari. Ritornato in Valsugana, nel 1910 parte per Milano dove studia con Filippo Carcano, maestro di Bartolomeno Bezzi, formandosi nell’ambito della scapigliatura lombarda. Successivamente è a Venezia dove frequenta l’Accademia di Belle Arti. Qui incontra i trentini Umberto Moggioli, Tullio Garbari e gli altri portagonisti di Cà Pesaro. Di indole mite e introversa, lascia ben presto l’effervescente ambiente veneziano e ritorna in Trentino. Alla fine della Prima Guerra Mondiale è a Mittendorf, in Moravia, seguendo il destino di molti conterranei sfollati. Ritornato in Trentino vive tra Mezzolombardo e Caldonazzo, soggiornando anche a Molveno e a Toblino.

Inizia ad esporre nel 1924 partecipando alla II Mostra d’arte della Venezia Tridentina di Bolzano. Fino agli anni Quaranta espone ininterrottamente alle mostre organizzate dal Sindacato Interprovinciale Fascista a Trento e a Bolzano. Durante la seconda guerra mondiale continua la sua vita da errabondo, trascorrendo molto tempo a Caldonazzo dalla sorella minore. Muore a Mezzolombardo il 25 febbraio 1959.

A cura di Giovanna Nicoletti

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